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Cotone tra antico e moderno

sostenibilità fast fashion

Lavorato e coltivato da più di 3000 anni il cotone, con la sua storia strettamente connessa a quella degli schiavi in America, è diventato, tra alti e bassi, un prodotto estremamente diffuso grazie alle sue caratteristiche intrinseche: leggerezza, morbidezza, assorbimento, ipoallergenicità, facile tinteggiatura, resistenza…

L’uomo ha trasformato una pianta selvatica in una resistente e più adatta ad essere coltivata e che producesse un quantitativo maggiore di prodotto grezzo per poter soddisfare la sempre crescente richiesta di stoffe.
La pianta è quindi stata adattata a più ambienti, trasportata per lunghe distanze e sono state ampliate la aree di coltivazione.

Oggi i maggiori produttori di cotone sono Cina, India, USA, Pakistan e Brasile e i primi due, da soli, producono circa il 50% del cotone mondiale, con una produzione doppia della Cina rispetto all’India.
A tal proposito viene da domandarsi se ciò dipenda esclusivamente dalla presenza di particolari condizioni climatiche o se la quantità estremamente alta di pesticidi utilizzati dalla Cina abbia una qualche ripercussione, in termini di volumi, sulla produzione.
Sicuramente ripercussioni si riscontrano in termini di impatto ambientale: dall’inquinamento delle fonti idriche (pare che il 70% di fiumi e laghi del continente asiatico risulti contaminato dalle acque reflue prodotte dall’industria tessile) alle ripercussioni sui prodotti alimentari e conseguentemente sulla salute dell’uomo.

Utilizzando, a livello mondiale, circa il 6% del totale pesticidi utilizzati per le coltivazioni, il cotone non è rispettoso per l’ambiente anche per altri motivi.
Sfrutta circa il 2,5% delle terre adibite ad agricoltura e utilizza più o meno il 15% del totale degli insetticidi. Per la produzione di un chilo di cotone sono necessari più di 5.000 litri di acqua e per la tintura vengono utilizzati metalli pesanti come piombo o cromo oltre a olio, solventi e, ancora una volta, acqua.

Lo sviluppo della moda fast (fast fashion) ha peggiorato notevolmente il rapporto produzionecotone/sostenibilità. La mastodontica richiesta di stoffe ha spinto l’intera catena, dai produttori fino alla vendita, a preoccuparsi sempre meno di aspetti legati alla sostenibilità ambientale e sociale.
Ne sono derivati sfruttamento e deforestazione di enormi aree di foresta e abuso dei diritti dei lavoratori. Purtroppo la catena del cotone è lunga, complessa e spesso passa attraverso Paesi con regolamentazione dei diritti dei lavoratovi molto lacunose se non totalmente assenti.
Intervenire con norme non riconosciute a livello locale non garantisce risultati.

Ancora una volta uno spiraglio per la riduzione dell’impatto ambientale potrebbe nascere da una azione combinata: migliore gestione delle coltivazioni unito a minor consumo.
Coltivare non sfruttando il terreno attraverso monocolture, diserbanti aggressivi e pesticidi ma adottando rotazioni colturali, concimazione naturale e permettendo così al terreno di autorigenerarsi grazie al rispetto e alla biodiversità.
Tornare indietro ci farà andare avanti e il prodotto così ottenuto, per il quale ci sarà bisogno di un minore utilizzo di acqua grazie ai nutrimenti presenti nel terreno, sarà un prodotto migliore con il quale realizzare stoffe più durature che ci consentiranno di acquistare, e quindi consumare, di meno.
Un circolo virtuoso per il benessere del Pianeta.

sostenibilità fast fashion

Lavorato e coltivato da più di 3000 anni il cotone, con la sua storia strettamente connessa a quella degli schiavi in America, è diventato, tra alti e bassi, un prodotto estremamente diffuso grazie alle sue caratteristiche intrinseche: leggerezza, morbidezza, assorbimento, ipoallergenicità, facile tinteggiatura, resistenza…

L’uomo ha trasformato una pianta selvatica in una resistente e più adatta ad essere coltivata e che producesse un quantitativo maggiore di prodotto grezzo per poter soddisfare la sempre crescente richiesta di stoffe.
La pianta è quindi stata adattata a più ambienti, trasportata per lunghe distanze e sono state ampliate la aree di coltivazione.

Oggi i maggiori produttori di cotone sono Cina, India, USA, Pakistan e Brasile e i primi due, da soli, producono circa il 50% del cotone mondiale, con una produzione doppia della Cina rispetto all’India.
A tal proposito viene da domandarsi se ciò dipenda esclusivamente dalla presenza di particolari condizioni climatiche o se la quantità estremamente alta di pesticidi utilizzati dalla Cina abbia una qualche ripercussione, in termini di volumi, sulla produzione.
Sicuramente ripercussioni si riscontrano in termini di impatto ambientale: dall’inquinamento delle fonti idriche (pare che il 70% di fiumi e laghi del continente asiatico risulti contaminato dalle acque reflue prodotte dall’industria tessile) alle ripercussioni sui prodotti alimentari e conseguentemente sulla salute dell’uomo.

Utilizzando, a livello mondiale, circa il 6% del totale pesticidi utilizzati per le coltivazioni, il cotone non è rispettoso per l’ambiente anche per altri motivi.
Sfrutta circa il 2,5% delle terre adibite ad agricoltura e utilizza più o meno il 15% del totale degli insetticidi. Per la produzione di un chilo di cotone sono necessari più di 5.000 litri di acqua e per la tintura vengono utilizzati metalli pesanti come piombo o cromo oltre a olio, solventi e, ancora una volta, acqua.

Lo sviluppo della moda fast (fast fashion) ha peggiorato notevolmente il rapporto produzionecotone/sostenibilità. La mastodontica richiesta di stoffe ha spinto l’intera catena, dai produttori fino alla vendita, a preoccuparsi sempre meno di aspetti legati alla sostenibilità ambientale e sociale.
Ne sono derivati sfruttamento e deforestazione di enormi aree di foresta e abuso dei diritti dei lavoratori. Purtroppo la catena del cotone è lunga, complessa e spesso passa attraverso Paesi con regolamentazione dei diritti dei lavoratovi molto lacunose se non totalmente assenti.
Intervenire con norme non riconosciute a livello locale non garantisce risultati.

Ancora una volta uno spiraglio per la riduzione dell’impatto ambientale potrebbe nascere da una azione combinata: migliore gestione delle coltivazioni unito a minor consumo.
Coltivare non sfruttando il terreno attraverso monocolture, diserbanti aggressivi e pesticidi ma adottando rotazioni colturali, concimazione naturale e permettendo così al terreno di autorigenerarsi grazie al rispetto e alla biodiversità.
Tornare indietro ci farà andare avanti e il prodotto così ottenuto, per il quale ci sarà bisogno di un minore utilizzo di acqua grazie ai nutrimenti presenti nel terreno, sarà un prodotto migliore con il quale realizzare stoffe più durature che ci consentiranno di acquistare, e quindi consumare, di meno.
Un circolo virtuoso per il benessere del Pianeta.

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